Bella questa idea di far ripartire il Sud, in effetti non ci aveva mai pensato nessuno. A Gioia Tauro ieri si sono presentati Giuseppe Conte e i ministri Peppe Provenzano e Lucia Azzolina per raccontare il progetto di rinascita del meridione d’Italia, Sud2030 che per denominazione e lungimiranza temporale ricorda il Saudi Vision 2030 dell’Arabia Saudita, con tanto di slide non esattamente all’altezza della grande scuola di design italiano e pure raffiguranti in copertina il castello di Duino, in Friuli Venezia Giulia, che al massimo rappresenta il sud della Slovenia.
Il premier e i suoi ministri hanno promesso ventuno miliardi di euro nei prossimi dieci anni, una cifra da applausi smorzati soltanto dalla prospettiva che tra dieci anni ci possano essere ancora loro al governo, magari con un Conte decies.
Certo, non c’è più Barbara Lezzi a coordinare le politiche pubbliche per il Sud, ma i Cinque stelle sono ancora il primo partito del Parlamento, il primo della maggioranza di governo e quelli che hanno espresso lo stesso Presidente del Consiglio che un anno fa, per rilanciare il Sud, ha deciso di assegnare un reddito di pigranza (copyright Giuliano Ferrara) ai disoccupati meridionali, non esattamente una misura di crescita e di sviluppo per le zone più depresse del paese.
È stato il ministro Peppe Provenzano, del Pd, a spiegare nel dettaglio le cinque missioni per il rilancio del sud che hanno come obiettivo primario quello di consentire ai giovani meridionali di non essere costretti a lasciare le terre di origine, circostanza che pronunciata con tutta la gravità del caso da due ministri siciliani e da un premier pugliese che dalle loro terre si sono spostati volontariamente in direzione nord, esattamente come chi scrive, sembra una versione lastricata di buone intenzioni del famigerato aiutiamoli a casa loro.
Provenzano ha promesso per il sud una «cura del ferro», recuperando la retorica del programma di sviluppo di una rete di trasporti pubblici ideato venticinque anni fa da Walter Tocci a Roma, non di grande auspicio visti i risultati, ma l’intenzione, di nuovo, è ammirevole. Restano i dubbi che una «cura del ferro» possa essere prescritta in modo credibile dal governo che ha appena affossato chi il ferro lo trasforma in acciaio, all’Ilva di Taranto, e da un partito, quello del premier, che è ideologicamente contrario alle infrastrutture per i treni ad alta velocità Tav e, proprio al sud, anche a quelle per i gasdotti Tap. Auguri, comunque.
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